Non voglio gettarmi nella mischia, azzuffarmi (perché a volte, di zuffa si tratta) fra i fanatici dell’una o dell’altra sponda. Da piccolo parteggiavo per i cow boys contro gli indiani, per Topolino contro la banda bassotti, ma anche per Arsenio Lupin e Occhi di gatto. Da grande, quando ci diventerò, magari riuscirò a capire che i confini spesso diventano labili, sfumati.
Non voglio gettarmi nella mischia, non riesco a dire se la storia del Barolo l’abbiano fatta i tradizionalisti della botte grande o i modernisti della barrique, i “padri” della quantità o i “figli” del diradamento. Forse la storia, come insegnerebbe lei stessa, nasce da una sintesi dei boys e dei fathers. Purtroppo, però, le sintesi sono laceranti e mai, mai, indolori.
Non riesco però a non essere affascinato o, posso dirlo senza timore, emozionato dal racconto di Elio Altare e di quel tempo, di quello strappo, di quell’affronto, come lui stesso l’ha definito. E non me ne frega niente, dico davvero, se il suo barolo fosse più o meno buono di quello del padre. Quello che vedo, dietro il fumo, è che ancora una volta il vino rappresenta un veicolo, un tramite, un simbolo dentro il quale scorre la vita, con le sue gioie e le sue bruttezze.
E allora, quello che sono stati, nel bene e nel male, i Barolo Boys lo siamo stati forse tutti noi nel momento di quello strappo, di quel lasciare l’ovile familiare e decidere cosa fare ed essere.
Perché, come spesso mi sono detto, cambiare e partire non vuol dire né ripudiare né abbandonare, ma solo esistere, vivere. E ci sono due modi per morire: o non cambiare, oppure cambiare senza portarci dietro quello che ci hanno insegnato.
Allora, forse prima che Barolo Boys, loro furono, come tutti noi un tempo passato o futuro, semplicemente boys.