Siamo, o almeno sono, abituati ad associare il termine eroico a viticolture di alta montagna, di pendii scoscesi e piante a due passi dal burrone, di uomini. Oggi ho imparato un’accezione diversa del termine eroico, forse il suo vero significato.
Fare viticoltura eroica significa fare viticoltura dove tutto rema contro, dove sembra impossibile farlo, dove molti ti prenderebbero per pazzo. Fare viticoltura eroica è come fare una centrifuga dei mille motivi per i quali fare vino ed estrarne il succo più intimo: la passione sicuramente, a volte forse la necessità di lavorare per vivere.
Qui a Lanzarote, estrema isola orientale dell’arcipelago delle Canarie, il motivo è sicuramente il secondo, ma per farlo così bene ci vuole anche una bella dose di passione nella ricetta.
Pieno Oceano Atlantico, trecentocinquantadue (non un modo di dire, proprio trecentocinquantadue) bocche vulcaniche sparse in un fazzoletto di terra, vegetazione ridotta al minimo in un ambiente che definire inospitale è un insolito approccio ad un complimento. Il risultato è un cocktail letale per la vite: aridità, venti fortissimi, umidità ridotta allo zero.
La soluzione come sempre viene dalla terra, stavolta scavata per formare una sorta di buca di forma conica. Qui dentro nasce e cresce la vite, che trova il micro clima (umidità, temperatura, riparo) adatto al proprio sostentamento e alla fruttificazione. È proprio vero, come racconto ai miei figli, che le viti sono piante da competizione. E quindi i vigneti qui a Lanzarote sembrano un’enorme fetta di Emmenthal con i buchi verdi, tutti rigorosamente e graziosamente incorniciati da muretti di pietra, manco a dirlo lavica, a guisa di barriera antivento.
Copyright del metodo a cura di Cesar Manrique, una sorta di architetto paesaggista tuttofare che ha dettato canoni culturali ed estetici dell’isola.
L’unico assaggio, sinora, è un bianco 80% malvasia, vinificata in acciaio, millesimo 2014. Non un bambino però, nato già pronto e così caratterizzato da bere subito. Il naso è un intrigante mix ove sono ben fusi i classici sentori aromatici e morbidi della malvasia con la nera saporosità, sicuramente ben timbrata, della pietra e della cenere. Il vulcano comanda, da queste parti, anche nel bicchiere. In bocca è quindi un trionfo di durezze, quasi elettrico, con un sottofondo morbido che il calore regala comunque. Lo trovo comunque equilibrato, visto dove è cresciuto. Non lunghissimo, ma cosa vuoi…
Certo la macerazione senza bucce aiuta, sono curioso infatti di provare il rosso che ho portato a casa; lì, dove la polvere caduta sulle bucce entra tutta nel bicchiere, mi aspetto che sarà difficile non cadere nella volgarità. Ne riparleremo…